lunedì 16 luglio 2007

Breve





Questo luogo ha il sapore di una terra promessa raccontata lentamente, una sera d’inverno, quando il freddo rintana nelle case.
I paesi corrono sommersi tra teorie di curve aperte sul lago. Somigliano a fazzoletti disposti in confusione, chiazze che si fronteggiano appena sotto i monti.
Non diversamente desiderai la promessa.
Scrissi ad un amico e lui rispose che era possibile; venni, desiderai di restare.
I giorni succedettero ai giorni, vuoto raccolto intorno al lavoro, il ristorante, la stanza in affitto stretta nello spazio.
Paolo dice che siamo passanti anonimi, individui chiamati a sopportare gli squilibri del sistema.
Ha bisogno di braccia, dice, per esistere, gente acquistata indirettamente pronta ad accettare per cambiare, costruire.
Discutiamo spesso la sera dopo il lavoro e il ristorante.
Parliamo di donne e di problemi; parliamo di nostalgia.
Quanta gente, senza nome, realtà di un numero immenso emigra in cerca di lavoro.
Gente di Calabria e di Lucania ma non solo del Sud parte con dentro la speranza di trovare un luogo possibile: una valigia, la forza delle braccia, l’ingegno al servizio di sistemi diversi.
Simile a carne che si sposta questo è l’emigrante, accettato, cacciato, raramente trova una teoria capace di raccontarne l’esistenza.
L’emigrazione è un problema di tutti, una vergogna sociale fatta d’alienazione, malessere.Decisi questa raccolta durante un viaggio in Puglia, a Specchia, un paese prossimo all’estremo dove il Mediterraneo si unisce allo Jonio.
Le case basse e bianche, geometricamente disposte ai lati della strada lunga che ad un estremo porta verso l’interno e all’opposto indica il mare, ricordano paesaggi che hanno il sapore dell’oriente.
Abitavo in via Colonnello di Giovanni, vicino alla fontana, meta serale di un chiacchierio sommesso, quasi religioso, di donne e brocche testimoni d’una realtà immutabile.
Una collina bassa e lunga separa il paese dal mare che è, nella stagione estiva, di un blu intenso; brillante e chiaro sotto il sole del mezzogiorno.
La terra bruciata, i fichi d’india appena oltre i muretti disegnano, insieme alle case bianco calce e gli ulivi, un nàif selvaggio di colori vivi, parlanti, che assumono, nell’insieme, personalità propria tanto sono staccati e diversi.
Quell’estremo lembo di terra a cavallo tra due mari anticamente governato dai baroni e dalla Chiesa è oggi un serbatoio di braccia che sanno lavorare.
Quella realtà povera, lunga da raccontare, quel paese fatto di donne, di vecchi e di bambini; abbandonato dagli uomini e che viveva per le rimesse di quelli è simile ad altri luoghi d’un Sud dimenticato dallo Stato che fa parlare ed affanna.



Luino, luglio 1974

(Il racconto trovò ospitalità nella pagina dei frontalieri de “Il Giornale” diretto da Indro Montanelli. Siamo nel 1974)

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